Il tempo, che è misura del moto, non è nel cielo ma negli astri; e quel primo moto che concepiamo non è soggettivamente in altro luogo che la terra.

 

LA MIA SPIEGAZIONE

 

     Se pure definissimo il tempo allo stesso modo di Aristotele, come misura del moto, non lo porremmo nel cielo, perché il cielo non è il soggetto di quel moto con il quale si dice siano misurati tutti i tempi e tutti i movimenti; ma senza dubbio lo collocheremmo negli astri. Se si riconosce che quel moto in virtù del quale tutti gli astri sembrano come rapiti da un velocissimo turbine intorno alla terra ha di fatto nella terra il proprio soggetto, senza dubbio tanti saranno i tempi dell’universo, quanti sono gli astri. Non può esservi infatti un unico moto nell’universo tale da risultare la misura di tutti gli altri, poiché, se noi fossimo in un altro astro, apparirebbe del tutto chiaramente che il moto velocissimo di tutti gli atri è diverso da questo che si vede dalla terra; così come nella luna risulta evidente che il moto diurno è diverso dal nostro, per il fatto che essa riceva nella sua superficie in uno spazio di ventotto giorni ciò che questo astro, la terra, accoglie in uno spazio di ventiquattro ore. Poiché dunque si immagina il tempo come qualcosa che scorre, bisogna ritenere che esso scorra in modo continuo e con la massima regolarità; ma quale misura questo moto diurno può mai essere di quello, quando il moto sulla linea equinoziale non è né diurno né uguale? A meno che lo stesso moto non devii, in ugual misura, in due altri moti uniformi, dei quali uno si dice proprio dell’ottava, l’altro della nona sfera, donde quella rivoluzione verrebbe condotta sia uniformemente, sia anche difformemente. Ma in quel moto quali due parti uguali prenderai?

     Dove potresti immaginare due movimenti proporzionali?

Forse che se tu provvedessi a dividere quest’unica misura, quest’unico moto e a distinguere due orbite, cioè la meridiana e l’equinoziale, otterresti qualcosa in modo tale che alla fine si abbia una legge certa delle parti dell’una e dell’altra orbita? Inoltre, in realtà tutte le orbite circolari osservate e verificate nel cielo dai nostri astronomi non sono circoli, se non impropriamente, né possono essere interpretate attenendosi strettamente alle regole del cerchio.

La legge del moto diurno, dunque, venga essa dedotta soltanto dal sole o soltanto dal moto della terra o da entrambi, o da queste o da altre rivoluzioni, non si da affatto né può essere geometrica: dato che senza dubbio non è possibile dividere in modo regolare la spirale e dato che un moto su di essa, che risulti secondo i calcoli assolutamente ed esattamente uniforme, non è naturale.

In che modo dunque il moto e il tempo si potranno commisurare?

Dov’è infatti questa misura temporale? Dov’è quello che, uguale a se stesso, possa valutare l’uguaglianza e l’ineguaglianza degli altri? Poiché il primo moto era ritenuto da Aristotele il più regolare di tutti, in quanto secondo lui il moto dell’ottava sfera, in questo caso esso solo, era il primo, da questo stesso movimento è stata dedotta la ragione del tempo e della misura della durata di tutti i moti. Ma cosa direbbe ora se scoprisse altri moti e vedesse la misura del moto diurno essere stravolta da migliaia di movimenti irregolari? Vedi ora a quanti e quanto grandi errori è stato condotto quest’uomo dalla presunzione e dall’aver ignorato una sola cosa? Ecco in che modo cadono quelle sei ragioni, in base alle quali era affermato il tempo del moto del cielo: - tale che attraverso esso si misuri la durata successiva, - in quanto massimamente noto, - in quanto comune a tutti, - in quanto invariabile, in quanto primo tra tutti, - in quanto minimo, perché velocissimo. Giacché è proprio dell’essenza della misura che,  1° - attraverso di essa si conosce quanto grande è una cosa, 2° -  è di un unico genere con il misurato o semplicemente o per le medesime condizioni, sia che si tratti di lunghezza, di successione o di intensità,  3° -  è nota, anzi la più nota, in quanto grazie ad essa si viene a conoscenza delle altre cose, 4° -  persiste identica a se medesima, in modo tale da non indurre in inganno il giudizio, -  è a tal punto minima, che non vi è nulla che possa sfuggire a questa misura; tuttavia non minima assolutamente, ma relativamente ai sensi.


CAPO I

È piuttosto il moto misura del tempo, che non il tempo misura del moto; con più verità diciamo, infatti, che conosciamo la durata attraverso il moto che non il contrario; sebbene infatti accada che essi vengono misurati reciprocamente, mia un determinato tempo sarà misura del moto, se prima un determinato moto non sarà stato misura del tempo.

 

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     Pur essendo il tempo una certa durata, che senza dubbio può essere concepita e definita assolutamente, tuttavia non la si rinviene separata dalle cose, dato che la si dice in riferimento a ciò che dura e di ciò che dura. Dunque, come è necessario che vi sia un unico luogo, così occorre che vi sia un unico tempo comune, unica durata, che non ammette né una fine né un principio. E come nell’unico spazio infinito, continuo, comune si concepiscono infiniti luoghi e spazi proprio dei corpi particolari, a ciascuno dei quali si adattano perfettamente, così in un’unica durata comune a tutte, diverse durate e tempi appartengono alle diverse cose. Tuttavia, la durata e lo spazio si differenziano perché ovunque, in generale e in particolare, lo spazio è inteso come ciò che permane immobile, mentre il tempo come ciò che influisce velocissimamente in questi enti che si muovono in modo rapidissimo, più lentamente in quelli che mutano più a stento, per nulla in quelli che non subiscono alcuna alterazione; ammesso che alcuni di questi possono collocarsi nel tempo; perché, infatti, attribuiamo il tempo non soltanto a quegli enti che si muovono, ma anche a tutti quelli che sono e che di conseguenza si ritiene che durino. Tuttavia, così come definiamo l’immenso spazio “luogo universale”, diciamo anche l’eternità “tempo universale”.

     Sotto un’unica durata, dunque, alcune cose si dicono eterne, altre semplicemente temporali, e di queste alcune di maggiore, altre di minore età; e in queste accade di concepire il tempo sia come misura che come misurato, mentre cerchiamo di conoscere, in maniera reciproca, sia la quantità della durata attraverso il moto, sia la quantità del moto attraverso la durata. Il tempo, però, non è affatto misura del moto, a meno che non lo si assuma precedentemente come un determinato moto. Anzi, il tempo è sempre la quantità di qualche rivoluzione e perciò il moto è, in maggior grado e per sé, misura del tempo, mentre il tempo, in minor grado e per accidente, è misura del moto; cosicché alla fine con più verità diciamo che ciò che non è moto è misurato dal moto, piuttosto che il moto dal tempo, mentre, dopo aver preso una certa durata di un moto come misura, determiniamo attraverso il tempo altre durate dei moti. Da ciò risulta evidente che attraverso il moto che abbiamo la conoscenza certa del tempo, e non viceversa. E, sicuramente, laddove Aristotele, attraverso l’esempio di quei sette uomini che in Sardegna dormirono accanto agli eroi, considera che non vi è percezione del tempo per il fatto che non vi è percezione del moto, doveva o poteva concludere che il moto è misura del tempo piuttosto che il tempo del moto.

 

CAPO II

 

Non di meno diremmo che esiste il tempo se tutto fosse in quiete. 

Per tale ragione Aristotele dovette collegare al moto non il tempo, ma la cognizione del tempo.

 

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     Senza dubbio, se non esistessero il moto e il mutamento, nulla sarebbe detto temporale, uno e medesimo sarebbe il tempo di tutte le cose, una e medesima la durata, chiamata eternità; anzi, il tempo, inteso come l’età di ciascuna cosa, non esisterebbe per nulla.

     L’essere del tempo, dunque, quanto alle sue specie dipende dal moto. Ora, se accadesse che tutte le cose fossero in quiete, accadrà per questo che esse non abbiano durata? Niente affatto; esse durano e durano tutte di una medesima durata. Non esistendo, però, alcun moto, non vi sarà alcuna misura di quella durata. Il moto dunque sarà la misura del tempo o della durata solamente in ciò che ammette una certa e determinata durata; ma in verità questo fu in gran parte subodorato da Aristotele, il quale, allorché stabilì di assumere il tempo come misura del moto, volle che il tempo fosse il moto diurno, ossia non considerò l’essenza della durata assolutamente, ma secondo l’essere contratto in una certa specie di moto. Se dunque il moto non fosse mai esistito, non vi sarebbero diverse specie di durata, ma una unica eternità priva di nome (in quanto esso trae origine dalla differenza). 

     Ma, per quale motivo, se si ipotizza che tutte le cose siano in quiete, il numero del tempo non possa essere separato dal numero del moto io non riesco a comprenderlo tanto chiaramente, a meno che non assuma per principio che il significato di tempo sia stato completamente ridotto entro gli stretti limiti di quella definizione peripatetica, piuttosto che (come dovrebbe essere) intendere il concetto di tempo sia assolutamente sia relativamente, dato che si dà sia nell’uno che nell’altro modo. Tuttavia, in queste modalità il tempo è concepito non solo come ciò che conta e misura il moto, ma anche come misurato e contato con il moto. Per quel che riguarda la quiete poi, sosteniamo che anche questa è misurata con il moto e il tempo; e se tutte le cose stessero in quiete, non per questo il tempo cesserebbe di essere la misura della durata, poiché una sola sarà la durata di tutte le cose, una sola la quiete. Perciò, come riguardo alle cose mosse stabiliamo il moto dell’una per mezzo del moto dell’altra, così ora il tempo misurerà la quiete di una mediante la quiete di tutte e la quiete di tutte mediante la quiete di una (a meno che tu non voglia che il rapporto tra tempo e misura sia disomogenea), dal momento che la misura è duplice:  l’una determinata dalla parte per il tutto, come quando il giorno è misurato con l’ora, l’altra determinata dal tutto per il tutto, e questa è duplice, ossia uguale, come quanto con tutto il peso B che è cinque libbre, o con un cubito di legno misuriamo un cubito di tessuto; e proporzionalmente come quando misuriamo, con un grado celeste, un grado della terra a quello corrispondente. Tutto ciò è stato fissato a proposito del tempo, ove lo si ritenga non una specie di durata, ma la stessa durata; donde, il tempo perpetuo è l’eternità, quello finito è l’età, secondo innumerevoli specie. Se invece a qualcuno piace parlare del tempo come della durata dei corpi nobili, non lo contesteremo, purché intanto, assunto questo come principio, non sia distolto dal considerare i molti aspetti che ora e in altri momenti abbiamo trattato e definito. Quanto opportunamente e felicemente la conoscenza del tempo sia vincolata al moto può apparire chiaro anche da quel che segue. Qui, infatti, ci basta aver mostrato il motivo per cui il tempo, in quanto è la misura costante e universale del moto non può essere percepito o immaginato in altro modo che attraverso il moto, sia naturalmente, dalla rivoluzione del sole o della luna o di un altro astro, sia artificialmente dal flusso dell’acqua o della sabbia o dalla rotazione dei punti, tra i quali non riusciamo con i sensi a scorgere uno diverso dall’altro o da se stesso. Inoltre siamo abbastanza sicuri che a una quantità di moto e a una figura geometricamente uniformi non corrispondono mai un moto, una massa e una figura fisicamente uniformi.

 

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