LE MOTIVAZIONI CHE INDUSSERO GIULIANO KREMMERZ A ESCLUDERE I MASSONI DALLA NASCENTE E FUTURA FR+ TM+ DI MYRIAM.
Ultimo aggiornamento Martedì 08 Febbraio 2022 17:13 | | Stampa | | E-mail
La motivazione dell’esclusione dei massoni dalla Fratellanza di Myriam, attuale e futura, deriva dal suo essere, per statuto (vedi Pragmatica fondamentale), una Fratellanza categoricamente spirituale, per questo non assimilabile in nessun modo a qualsivoglia organizzazione sociale o politica, cui rassomigliano, invece, le Massonerie moderne, le cui storie sono perciò stesso legate indissolubilmente alle vicende materiali nazionali. Giuliano Kremmerz escluse i massoni dalla Fratellanza di Myriam, seguendo per sua natura i dettami della Chiesa Cattolica, cui rimase sempre aderente, dettami oggi ancora validi poiché recentemente ribaditi dalla Dichiarazione sulla Massoneria ratificata dal Santo Padre Giovanni Paolo II nel non lontano 1983. Con la Dichiarazione sulla Massoneria, il Sommo Pontefice negò udienza speciale al Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia (G.O.I.), richiesta formulata a mezzo di Lettera al Santo Padre inviata per il tramite di un Cardinale dell’epoca (non interessa noi chi fece da tramite alla missiva né quali motivi l’avessero indotto a sottoscriverne la causa). La Dichiarazione è consultabile da tutti, essendo pubblicata sul sito ufficiale del Vaticano nella sezione dedicata alla Congregazione per la Dottrina della Fede; la Lettera al Santo Padre, ad oggi non ci risulta essere mai stata smentita dal G.O.I., ed è stata di recente anche pubblicata in un libro, il cui sapore esclusivamente scandalistico ci distoglie dal pubblicizzare. D’altronde per approfondire la questione che ci preme chiarire, senza fini polemici o di pettegolezzo alcuno, ci sono più che sufficienti i soli testi citati sopra ed è con questa intenzione di ricerca della verità che di seguito ne mettiamo a disposizione il contenuto, per chi volesse approfondire l’argomento. San Giovanni Paolo II con la Dichiarazione sulla Massoneria diede ampia prova di aver letto attentamente la missiva a Lui indirizzata, e soprattutto meditato bene anche quanto “non scritto”; fu per questi motivi detti e non detti, che Egli con amorevole previdenza non intravide possibilità di contatto alcuno, anche per il futuro, tra la Chiesa Cattolica e la Massoneria, anzi intuì, con amorevole prudenza, che occorreva sancire la loro inconciliabilità di principio ancora una volta nettamente, per sempre; e chi potrà mai smentirne la profetica lungimiranza? Non poteva sfuggire agli occhi illuminati del Santo Padre la mancanza di "Credo" nella Lettera, a tal punto da rendere impossibile qualsiasi riconoscimento spirituale fraterno da parte della Chiesa alla Massoneria, nonostante il dettagliato e vantato elenco di opere materiali portate dal G.O.I. con orgoglio a suo vantaggio. Cosa separa ciascuno di noi dalla Pura Verità più dell’Orgoglio e della presunzione? Come scriveva Giuliano Kremmerz, “Ignoranza ed Orgoglio non sono altro che la stessa identica cosa”. Quale insegnamento spirituale più profondo avrebbe mai potuto dare come esempio San Giovanni Paolo II, in qualità di Sommo Pontefice, a tutti, massoni e cattolici? La Fede non è qualcosa che si può comprare o vendere, non consiste in merce di scambio, in un manu-fatto, la Fede rappresenta il dono dello Spirito di Dio all’anima orante, ed è solo al Signore che bisogna chiederne la Luce, incessantemente, a mezzo della preghiera, con un cuore “Bambino”. La preghiera è stata la vera Vita di San Giovanni Paolo II, e tutti noi amiamo ricordarlo, anche quando sofferente nel fisico, sempre con il cuore rivolto a Maria ed al Signore, radiante Amore. Chissà quante tribolazioni dovrà subire ancora la Chiesa Cattolica Romana, per inesorabile punizione divina, a causa dei reiterati tentativi di alcuni suoi alti Prelati, di deviarne il culto spirituale divino, in senso materiale, in nome del progetto temporale di supremazia massonica? La mentalità massonica illuminista, razionalista e progressista, ha condotto l’umanità moderna verso la negazione dell’esistenza dell’anima, fino all’attuale mancanza di fede nell’esistenza di Dio; una siffatta mentalità, tanto ottusa quanto oscura, non è in nessun modo conciliabile, con la Sapienza spirituale divina, né con l’autentica Tradizione ermetica, essa è piuttosto la causa principale della inazione e della privazione spirituale, dilagata ovunque ad ogni livello. L’animale razionale “UOMO”, si è voluto consegnare prigioniero della passività materiale degli istinti, finendo vittima sacrificata sull’altare della natura irrazionale, degli esseri bruti, animali materiali. La preghiera è il vero ed unico motore della vita del credente, è questa l’autentica professione di Fede propria di ogni uomo a qualunque Credo appartenga; la Preghiera, in questo caso, è stata l’assente eccellente nella Lettera indirizzata al Pontefice dal vertice del G.O.I., e ciò non poteva sfuggire, rendendosene conto il Santo Padre, illuminato dalla Grazia di Dio, copiosamente.
CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE DICHIARAZIONE
SULLA MASSONERIA
È stato chiesto se sia mutato il giudizio della Chiesa nei confronti della massoneria per il fatto che nel nuovo Codice di Diritto Canonico essa non viene espressamente menzionata come nel Codice anteriore. Questa Congregazione è in grado di rispondere che tale circostanza è dovuta a un criterio redazionale seguito anche per altre associazioni ugualmente non menzionate in quanto comprese in categorie più ampie. Rimane pertanto immutato il giudizio negativo della Chiesa nei riguardi delle associazioni massoniche, poiché i loro principi sono stati sempre considerati inconciliabili con la dottrina della Chiesa e perciò l'iscrizione a esse rimane proibita. I fedeli che appartengono alle associazioni massoniche sono in stato di peccato grave e non possono accedere alla Santa Comunione. Non compete alle autorità ecclesiastiche locali di pronunciarsi sulla natura delle associazioni massoniche con un giudizio che implichi deroga a quanto sopra stabilito, e ciò in linea con la Dichiarazione di questa S. Congregazione del 17 febbraio 1981 (Cf. AAS 73, 1981, p. 240-241). Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, nel corso dell'Udienza concessa al sottoscritto Cardinale Prefetto, ha approvato la presente Dichiarazione, decisa nella riunione ordinaria di questa S. Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione. Roma, dalla Sede della S. Congregazione per la Dottrina della Fede, il 26 novembre 1983.
Joseph Card. RATZINGER Prefetto Fr. Jérôme Hamer, O.P. Arcivescovo tit. di Lorium Segretario
Qualora qualcuno fosse interessato al contenuto della Lettera del 1983 indirizzata al Santo Padre San Giovanni Paolo II a firma del Cardinale …. e del Gran Maestro del G.O.I. Avv. ….. ci teniamo a precisare che viene custodita copia nell’archivio della nostra Schola.
__________
Nel 1996, il Santo Padre San Giovanni Paolo II, ad ulteriore prova della fermezza delle decisioni prese nel 1983 con la Dichiarazione sulla Massoneria, rispediva al mittente il riconoscimento “Galileo Galilei”, conferitoGli dal Grande Oriente d’Italia (G.O.I.), di propria unilaterale iniziativa nell’ennesimo tentativo di “comprare” l’amicizia della Santa sede.
Articolo pubblicato dal quotidiano Repubblica il 22.12.1996. (copia conservata nella nostra Schola) |
GALILEO ALL'INFERNO
Ultimo aggiornamento Venerdì 22 Ottobre 2021 09:39 | | Stampa | | E-mail
Erano molti i colleghi
invidiosi che avrebbero spedito volentieri Galileo all’inferno, prima che vi
provvedesse la Chiesa bollandolo come eretico. In realtà Galileo all’inferno
c’era già stato, su commissione, o per meglio dire, ne aveva prese le misure, almeno
di quello che Dante Alighieri menziona nella Commedia. Calvino, limitandosi
essenzialmente al repertorio scientifico, ha definito Galileo come il più
grande letterato del Seicento in lingua italiana. Non deve stupire troppo
difatti che un uomo di scienza come Galileo avesse avuto modo nella sua vita di
occuparsi anche di critica letteraria. Allora non esisteva una divisione netta
fra i rami del sapere e il titolo di filosofo veniva preso nell’accezione
etimologica del termine. Il Favaro, nella sua Edizione
nazionale delle opere di Galileo Galilei, ebbe modo di dedicare il nono volume
(del 1899) ai componimenti galileiani di letteratura. I testi raccolti nel
volume sono: Due lezioni all'Accademia Fiorentina circa la figura, sito e
grandezza dell'inferno di Dante, le Considerazioni al Tasso, le Postille
all'Ariosto, un argomento e traccia d'una commedia, alcune poesie e frammenti.
Compaiono anche, come appendici, una canzone di Andrea Salvadori per le stelle
Medicee scritta e corretta di propria mano da Galileo e un saggio d’alcune
esercitazioni scolastiche di Galileo. Le Considerazione al
Tasso, che Giuseppe Iseo pubblicherà nel 1793 e le Postille sull’Ariosto, sono
fogli sparsi ad uso personale, senza una loro struttura organica, scritte
intorno all’età di 26 anni, cioè intorno al 1590, quando Galileo era già
lettore presso lo studio di Padova. Si tratta di ben altro rispetto allo
spessore culturale richiesto dal filosofo e primario matematico presso la corte
medicea, qualifica col quale concluderà la sua vicenda umana. Il Viviani
ricorda che il Galileo della piena maturità si intratteneva in conversazioni di
critica letteraria, molto viva allora, sulle qualità dell’Ariosto e del Tasso e
non era infrequente sentir tessere le lodi del primo come di sentir analizzare
in profondità, anche se con parole meno benevole, il secondo. Ma l’opera di ambito
umanistico di maggior spessore sono le due lezioni tenute all’Accademia
fiorentina riguardanti il poema di Dante, e Galileo, interpellato da Baccio
Valori come vedremo più avanti, seppe venirne a capo in maniera magistrale. Facciamo un passo
indietro ed inquadriamo il contesto storico. Galileo, dopo aver studiato contro
voglia alcune lezioni di medicina, viene introdotto intorno al 1583, spinto
soprattutto dalla conoscenza e frequentazione con Ostilio Ricci, allo studio
della geometria, che sembra affascinarlo di più. Compiuto il quarto anno di
studi a Pisa, torna presso la famiglia a Firenze. Benché privo di qualunque
titolo universitario, fa istanza al reggimento di Bologna per ottenere la
lettura delle matematiche. Frattanto si è reso vacante anche il posto di
lettore delle matematiche dello studio di Padova per la morte di Giuseppe
Moletti. Siamo nel 1588, Galileo ha soli 24 anni, ha già scoperto l’isocronismo
del pendolo ed ha già avuto modo di mettersi in luce con alcuni libelli
scientifici, come La bilancetta (pubblicata postuma ma che già circolava fra
conoscenti in forma manoscritta), Theoremata circa centrum gravitatis solidorum
(pubblicato nel 1638), De aequiponderantibus, De his quae vehuntur in aqua. In questo periodo era sorta una disputa letteraria fra i supporter di due eruditi ormai defunti, di cui uno facente parte dell’Accademia fiorentina, riguardante la prima cantica della Divina Commedia. L’Accademico era Antonio Manetti (1423-1497). Egli sosteneva che, tenuto conto della competenza di Dante, prima di porre mano all’opera, si fosse fatto mentalmente uno schema delle dimensioni che il suo inferno avrebbe dovuto avere. Per il Manetti doveva essere un’oscura voragine conica che si apriva sotto Gerusalemme. E che se comunque la forma fosse stata quella giusta, di quali dimensioni, non era in grado di dirlo. L’altro, un non accademico, era tal Alessandro Vellutello (1473-1550), che al contrario sosteneva che Dante avesse lavorato d’inventiva senza preoccuparsi della verosimiglianza di ciò che andava descrivendo e che comunque l’inferno immaginato dovesse essere assai più piccolo di quanto andavano affermando gli accademici, tutt’al più si sarebbe potuto quantificare in un qualcosa pari a 1/1000 dell’intero volume del mondo. La disputa tra le due fazioni era qualcosa di più di un semplice esercizio geometrico-letterario per uomini di cultura. I tifosi si erano accapigliati in duelli verbali senza venirne a capo. Il presidente dell’accademia, Baccio Valori (1535-1606), decise di risolvere la questione interpellando un giovane matematico, brillante e di belle pretese, che sapesse di lettere e di geografia e che potesse finalmente risolvere la questione, una volta per tutte, sperabilmente a favore del Manetti. Il matematico che fu
interpellato allo scopo era Galileo Galilei, introdotto dalle credenziali che
abbiamo visto, il quale, partendo dal presupposto che i rimandi
spazio-temporali citati da Dante nella prima cantica erano così numerosi, si
era convinto che il poeta non avrebbe cominciato la scrittura senza prima
essersi fatto un’idea delle dimensioni non solo dell’inferno nella sua
interezza, ma anche dei singoli gironi. Nacquero così le “Due lezioni all’Accademia
fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell’inferno di Dante”. Lo
scienziato affermò che probabilmente Dante aveva fatto in modo che non
potessero essere svelati fino in fondo i ponteggi su cui fondare il poema. Così
facendo “ha dato cagione di affaticarsi gran tempo per esplicar questa
struttura”. La prima lezione tende
essenzialmente a valorizzare l’opera del Manetti, terminando con la
determinazione delle dimensioni di Lucifero. Di seguito Galileo si supera, con
una strategia degna delle più riuscite operazioni di marketing contemporanee
(allora si sarebbe detto captatio benevolentiae), con una lode all’uomo del
committente: “Mirabilmente, dunque, possiamo concludere aver investigata il
Manetti la mente del nostro poeta”, e concludendo la prima giornata con un
riassunto delle affermazioni tanto care all’accademico, circa le dimensioni
delle regioni infernali. La seconda invece prende in esame il lavoro del
Velutello, analizzandolo con effettiva imparzialità, salvo poi concludere che
le tesi non possono essere sostenute altrettanto bene come quelle del Manetti. Seguiremo la sintesi del
nostro matematico pedissequamente, usando la sua notazione, ovvero esprimendo
le dimensioni in miglia e frazioni. La misura che Dante
conosce ed usa circa il raggio della Terra è 3245 e 5/11 di miglia fiorentine,
afferma Galileo, corrispondenti a circa 5560 km. Allora la misura era un po’
sottostimata, comunque superiore dell’opinione maggiormente accreditata due
secoli più tardi quando Colombo intese raggiungere le Indie navigando verso
occidente. Non possiamo citare tutti
i passi che Galileo diligentemente espone. A noi basterà rimarcare soltanto
alcuni elementi. Innanzi tutto la terzina: Tu non hai fatto sì
all’altre bolge: pensa, se tu annoverar le credi, che miglia ventidue la valle volge [If 29, 7-9] e quindi al canto XXX: Cercando lui tra questa gente sconcia, con tutto ch’ella volge undici miglia, e men d’un mezzo di
traverso non ci ha. [If 30, 85-87] Il succo del ragionamento
porta Galileo, da questi a prima vista labili appigli e poche ulteriori stime,
a considerare che l’inferno è una voragine conica a gradoni che si apre sotto
Gerusalemme per un’ampiezza tale che se la voragine arrivasse fino alla
superficie, alla sboccatura, per usare le parole dello scienziato, sulla crosta
terrestre segnerebbe una circonferenza, centrata su Gerusalemme e che dalla
città santa dista 1700 miglia. Questo significa che l’apertura del cono è di
60°. Per cui il volume dell’apertura risulta essere, parole di Galileo, inferiore
a 1/14 del mondo intero. Dice di aver fatto “il conto secondo le cose
dimostrate da Archimede ne i libri Della sfera e del cilindro”. Oggi, con un
semplice calcolo integrale, possiamo calcolare esattamente il valore pari a
1/14.93. Ma l’inferno non si apre
immediatamente sotto. Dalla superficie terrestre si deve scendere per 1/8 del
raggio, ovvero 405 e 15/22 miglia, entro le quali si apre un grande anfratto
fatto apposta per gli ignavi. Secondo l’opinione espressa nella Divina
Commedia, gli ignavi non li ha voluti nemmeno l’inferno. Per essere fuori, si
deve necessariamente supporre l’esistenza di una sorta di intercapedine dove
sono condannati a seguire nudi uno stendardo, punti da tafani e vespe mentre ai
piedi dei vermi fastidiosi raccolgono il loro sangue misto alle lacrime.
L’anfratto deve comunque aprirsi sul fiume Acheronte, dove si trova Caronte che
traghetta le anime nell’inferno vero e proprio. Il primo gradone
dell’inferno che i due poeti affrontano è quello del limbo che, secondo i
calcoli del Manetti suffragati dallo scienziato toscano, deve essere di 87 e 1/2 miglia. Segue Minosse e il cerchio dei lussuriosi, che può essere raggiunto
dopo essersi calati dal limbo di altre 405 e 15/22 miglia, il cui turbine
percuote e trascina le anime sopra un gradone ampio 75 miglia. Ancora 405 e
15/22 miglia di discesa per arrivare dove sono puniti i golosi, sotto la
continua pioggia ed i latrati di Cerbero, in un gradone ampio 62 e 1/2 miglia.
Altri 405 e 15/22 miglia di discesa sono necessari ai viaggiatori per sentire
Plutone che dice: “Pape satan, pape satan, aleppe” e per vedere il supplizio
degli avari e dei prodighi. Occorre scendere sempre della stessa quantità per
giungere al quinto cerchio, il quale è però suddiviso a sua volta in due
gironi: il primo è occupato dalla palude Stige, dove sotto Flegias sono puniti
gli iracondi e gli accidiosi mentre nel secondo c’è la città di Dite. Entrambi
occupano uno spessore di 37 e 1/2 miglia. Il sesto cerchio è
separato dal quinto da una scesa costituita da una rovina di sassi che comunque
rimane sempre pari ad 1/8 di raggio terrestre. Anche il sesto cerchio è
suddiviso in gironi. Il primo è un lago di sangue, detto Flegetonte, dove i
Centauri trafiggono con le loro frecce coloro che in vita furono violenti
contro il prossimo, nel secondo si trova il boschetto delle anime dei suicidi,
sui ramoscelli dei quali alberi svolazzano rapaci arpie che provocano loro
indicibili sofferenze, ed i violenti contro i propri beni, condannati ad esser
dilaniati da cagne fameliche. Nel terzo infine sono martirizzati in un cocente
deserto sul quale continuamente piovono fiamme dall’alto i violenti contro Dio,
la natura e l’arte. È qui che Dante ha modo di incontrare il suo maestro,
Brunetto Latini, e di scambiare alcune parole. Dal dialogo viene a sapere i
nomi di altri condannati alla stessa pena. Tutti e tre i gironi sono ampi 25
miglia. Superato il Cocito, uno
dei fiumi infernali, i due poeti arrivano nel baratro dove, saliti in groppa a
Gerione, il mostro con la faccia di brava persona, Dante e Virgilio affrontano
volando l’unico tratto aereo dell’inferno. Gerione li deposita sul settimo
cerchio che dista dal precedente 730 e 5/22 miglia, pari ovviamente alla
profondità del baratro. Il cerchio vede raccolte le anime dei fraudolenti, suddivisi
in dieci bolge, ciascuna è ampia 1 e 3/4 miglia, eccetto l’ultima che è solo 1/2 miglio, per un totale di 16 e 1/4 miglia, tutte collegate tra loro da un
ponticello, eccetto la sesta dove il ponticello è andato distrutto durante il
terremoto che ha fatto seguito alla morte di Cristo. Rimane un residuo di 1/4
di miglio prima di scendere nel pozzo dei giganti. Le loro dimensioni sono così
smisurate che non è difficile per i due poeti essere raccolti nelle loro mani,
in particolare in quelle di Anteo ed essere depositati sulla ghiaccia che è
l’ultimo stadio dell’inferno, dove si trovano i traditori. Essa è suddivisa in
quattro parti: Caina (traditori dei parenti), Antenora (traditori della
patria), Tolomea (traditori degli ospiti) e Giudecca (traditori dei
benefattori). La profondità del pozzo dei giganti, pari pure alla differenza di
quota che la separa dell’ottavo cerchio, è 81 e 1/2 miglia. Rimangono a questo
punto per essa 80 miglia di diametro. Sono più che sufficienti a Dante per
vedere il conte Ugolino, l’arcivescovo Ruggieri, Bocca degli Abati, frate Alberico,
per inciampare contro molte teste intirizzite nel ghiaccio, prima di arrivare
all’infernale visione (è proprio il caso di dirlo) di tre uomini, Bruto, Cassio
e Giuda, maciullati nelle fauci di Lucifero. Sotto le tre facce delle ali di
pipistrello in movimento generano un vento freddo che ghiaccia le acque del
fiume Cocito che alimenta la ghiaccia. La prima lezione termina
non prima di aver dato uno sguardo anche alle dimensioni del principe dei
diavoli. A Galileo sono sufficienti due terzine per avere quel minimo indizio
da permettergli di tentare una stima: La faccia sua [di Nembrot, uno dei giganti] mi parea lunga e grossa come la pina di San Pietro a
Roma ed a sua proporzione eran
l’altr’ossa. [If 31, 58-60] Si tratta della pina
bronzea posta un tempo nel mausoleo di Adriano, alta 3.2 m. Visto che è Dante
stesso a dirci nell’ultimo verso della terzina che i giganti sono proporzionati
agli altri uomini, comparando le dimensioni della testa con tutto il corpo e
trovando poi che: Lo ’mperador del doloroso
regno [Lucifero] da mezzo ‘l petto uscia
fuor de la ghiaccia; e più con un gigante io
mi convegno, che i giganti non fan con
le sue braccia. [If 34, 28-31] Se si suppone che anche
Lucifero sia proporzionato ad un uomo, al pari dei giganti, deve superare 1935
braccia fiorentine. Visto che il braccio fiorentino misura 58,32 cm è ben oltre
1 km! Quanto ecceda questa misura non è dato saperlo ma visto che emerge dal
ghiaccio dal petto in su e che il centro di gravità, nonché centro geometrico
della Terra deve essere compreso tra l’ombelico e i genitali, come si conviene
ad un uomo proporzionato, si ricordi ad esempio l’uomo di Vitruvio, e come si
evince dal seguente passo: Quando noi fummo là dove
la coscia si volge, a punto in sul grosso de l’anche, lo duca, con fatica e con angoscia, volse la testa ov’elli
avea le zanche e aggrappossi al pel com’om che sale, sì che n’inferno i’ credea tornar anche. [If 34, 76-81] allora si può concludere
che non deve superare di molto le dimensioni “minime” richieste per accordarsi
con la profondità della ghiaccia. Galileo butta là la cifra tonda di 2000
braccia. In questo modo il cerchio si chiude ed ha termine la prima lezione. La seconda giornata è un po’ più noiosa perché ritorna nuovamente sulle stesse considerazioni della lezione precedente, ma stavolta prendendo in esame le misure del Velutello che, se prese per buone, alla prova dei fatti, conducono a degli esiti contraddittori o quanto meno incerti. L’unico elemento innovativo, sollevato dal Vellutello, rigin senso orario o antiorario. Galileo liquida subito la questione e concluarda il fatto che i due poeti abbiano viaggiato ude la sua arringa con le seguenti parole, che incoronano il Manetti vincitore della sfida: “Ma perché o procedessero su la destra o su la sinistra [in senso antiorario o orario], non molto importa al principale intendimento nostro, che è stato di dichiarare il sito e figura dell'Inferno di Dante, ed insieme difendere l'ingegnoso Manetti dalle false calunnie ingiustamente sopra tal materia ricevute, e massime perché non lui solo ma tutta la dottissima Academia Fiorentina pungevano, alla quale per molte cagioni obligatissimo mi sento; avendo, per quanto la bassezza del mio ingegno mi concedeva, dimostrato quanto più sottile sia l'invenzione del Manetti, porrò fine al mio ragionamento”. Il discorso si ferma qui.
L’immagine che fa da frontespizio delle varie edizioni della Divina Commedia,
con l’inferno schematizzato da una cavità conica è l’idea che il Manetti aveva
fatto propria, suffragata con le due lezioni da Galileo. In conclusione vogliamo
comunque dare un cenno che, in qualche maniera, riabilita anche il Vellutello.
C’è un elemento che non può essere sfuggito a Dante e che tuttavia nelle
lezioni viene taciuto (d’altra parte a Galileo era stato richiesto di dirimere
la controversia sulle dimensioni dell’inferno ed il suo silenzio in merito è
legittimo). Dal momento in cui Dante e Virgilio si staccano dal pelame
dell’irsuto Lucifero (“conviensi dipartir da tanto male”) a quando escono “per
un pertugio tondo ... a rivedere le stelle”, passano alcune ore, diciamo fra 12
e 24; ci sono problemi di longitudine che Dante tace, visto che a sera siamo
ancora nell’inferno e che, usciti nel purgatorio, è ancora notte (vedono le
stelle, non è ancora cominciato il crepuscolo civile e il viaggio si svolge
intorno all’equinozio). Abbiamo detto che secondo la concezione dantesca il
raggio del mondo doveva essere sui 5560 km. Ciò significa che il viaggio, in
risalita, deve essere stato effettuato, a piedi, fra 230 km/h e 460 km/h.
D’accordo che i due s’incamminano “senza cura aver d’alcun riposo” ma forse le
esigenze scenografiche costringono Dante ad una forzatura del passo un po’
eccessiva, che tuttavia ci sentiamo in dovere di perdonargli quale licenza
poetica. Possiamo immaginare che,
vi fossero stati i presupposti, Galileo non si sarebbe tirato indietro a
valutare l’altezza della montagna del purgatorio o, vista la passione per gli
astri, le dimensioni delle sfere paradisiache, nell’ottica aristotelica di Dante,
verso la quale forse il nostro scienziato nutriva già più che qualche dubbio.
Ma per questo mancarono i presupposti: una diatriba fra eruditi ed un
committente disposto a pagare profumatamente. Siamo comunque sicuri che non
sarebbe sgradito, né tanto meno irriverente nei confronti di Galileo, se
qualcuno volesse imbarcarsi nell’impresa. Prof. Lorenzo Brandi CONSIDERAZIONI FRATERNE
Ultimo aggiornamento Mercoledì 21 Luglio 2021 15:01 | | Stampa | | E-mail
Scegliere di intraprendere un percorso di matrice ermetica comporta una grande responsabilità. Come affermava il maestro kremmerz: "In fondo, Ermes è l'intelletto della forza divinizzante l'uomo. Il poeta nei momenti di estro (istros = furore) – il matematico che risolve problemi arditissimi – il fisico che trova una legge e la prova – un oratore che seduce un'assemblea – un musico che incanta i suoi uditori – sono manifestazioni dell'ermes, intelletto sottile delle più alte pulsazioni ipercerebrali. La filosofia ermetica è la scienza che ricerca
questo dio inafferrabile e lo fissa." Ricercare questo dio di cui parla il Kremmerz é una
pratica che richiede preghiera, meditazione, impegno, costanza, fede e purezza.
Non é altrimenti possibile raggiungere le manifestazioni dell'ermes, quelle
pulsazioni definite "ipercerebrali" che vanno oltre ciò che è
tangibile. Come si può pertanto sostenere di costituire una scuola ermetica
quando al suo interno si praticano azioni immorali volte al solo
soddisfacimento del proprio corpo materiale? Finché suddette pratiche verranno
sostenute da coloro che si definiscono ermetisti, come potranno questi essere
portatori del messaggio di verità e di vita che conduca all'evoluzione umana?
Come può un'azione immorale portare alla divinizzazione dell'uomo? La verità porta con sé chiarezza ed evoluzione. Ci
auguriamo pertanto che dall'apertura del testamento spirituale di Salvatore
Merge scaturisca nuova linfa per tutti coloro che credono che solo la preghiera
e l'amore disinteressato possano condurre l'umanità alla vera luce. Un Fratello di Ermes, discepolo della Scuola del Kremmerz IL VIAGGIO DI DANTE ALLA LUCE DEI RIMANDI ASTRONOMICI
Ultimo aggiornamento Venerdì 21 Maggio 2021 07:17 | | Stampa | | E-mail
Nel 1588 Galileo fu interpellato per risolvere un’erudita
disputa inerente alla prima cantica della Divina Commedia. Quanto è grande
l’inferno dantesco, era la domanda a cui lo scienziato doveva trovare una
risposta. È ben noto infatti che non solo la prima cantica ma l’intera opera è
ricca di rimandi geografici, topografici e soprattutto astronomici. I dotti
dell’epoca erano convinti dunque che un astronomo sarebbe stata la persona
giusta per dirimere una simile controversia e l’interpellato Galileo era
convinto che prima di porre mano all’opera, Dante doveva essersi fatto uno
schema delle dimensioni, della forma e della posizione sotterranea
dell’inferno. Nonostante alcune incongruenze ed il fatto che talvolta sia
davvero arduo trovare degli appigli le abili considerazioni portarono lo
scienziato pisano a ricostruire il luogo, secondo la visione dantesca, deputato
allo sconto eterno delle pene. Tali considerazioni finiranno in quel testo che
reca il nome di Due lezioni all’Accademia fiorentina circa la figura, sito e
grandezza dell’inferno di Dante. Ben lungi da noi l’idea di voler emulare
Galileo, tuttavia ci sentiamo vogliosi di ingaggiare una giocosa tenzone,
cercando, sulla scia del Galilei, quegli appigli necessari per determinare i
tempi, oltre ai luoghi, del viaggio del poeta nell’oltretomba. Per dare
coerenza al viaggio sicuramente Dante deve essersi fatto qualche conto e tali e
tanti sono i rimandi, non solo astronomici, che l’autore, oltre ad avere
un’idea abbastanza chiara delle dimensioni, della posizione e della grandezza
dell’inferno, si era preoccupato anche di averne una per la montagna del
Purgatorio, per le sfere celesti (in un contesto aristotelico consolidato) e,
soprattutto, dello scorrere del tempo durante l’intero viaggio. Alcuni passi
danno chiara l’evidenza dell’autore-protagonista di voler spiegare al lettore
la propria posizione. D’altro canto, se è vero quanto afferma Galileo, secondo
cui l’autore aveva fatto in modo che non potessero essere svelati fino in fondo
i ponteggi su cui fondare il poema, per dare modo, forse, ai critici successivi
di affaticarsi per esplicare la struttura, altrettanto si può dire per quanto
riguarda la cronologia del viaggio. L’analisi dei passi astronomici andrà
dunque, di volta in volta, ponderata adeguatamente. Prima di partire con la nostra analisi è necessaria qualche
premessa, magari banale ma doverosa. Occorre ricordare che Dante vive a cavallo
fra il XIII ed il XIV secolo. A quel tempo le arti liberali, cioè dei liberi
cittadini, si dividevano fra Trivio, di ambito umanistico (grammatica, retorica,
dialettica) e Quadrivio, di ambito più scientifico (aritmetica, geometria,
musica, astronomia). Esse costituivano le basi della cultura dell’uomo
medievale, mentre i lavori manuali, fossero stati anche della più avanzata
tecnologia o delle arti plastiche più raffinate, erano considerati azioni degne
di servi o al più dei maniscalchi. Dante, figlio del suo tempo, ebbe una solida formazione
culturale sia nelle discipline umanistiche che in quelle scientifiche che
allora, meno specializzate rispetto ai nostri giorni, non si consideravano così
complementari e quasi antagoniste. Le conoscenze in ambito fisico sono quelle
aristoteliche, con due elementi gravi (terra e acqua) e due lievi (aria e
fuoco), oltre alla quintessenza che permea l’universo con le sue sfere
cristalline. Anche se i cieli sono fatti da sfere concentriche, secondo lo
schema descritto da Aristotele, le computazioni vengono eseguite sulla teoria
tolemaica, fatta di deferenti ed epicicli. Le dimensioni della Terra, ritenuta
sferica, sono un po’ sottostimate. Approssimativamente si poteva pensare ad una
Terra di poco meno di 5600 km di diametro. Le Terre emerse (l’ecumene) che si
estendono per 180° in longitudine sono tutte unite tra loro, in una sorta di
pangea, fatta eccezione per la terra degli antipodi, quella che verrà chiamata
“terra australis nondum cognita” nella quale Dante situa la montagna del
Purgatorio. L’interesse di Dante per l’astronomia è evidente, non
soltanto per i frequenti passaggi presenti nel poema ma anche per altri passi
delle sue opere. Scrive ad esempio nel Convivio: “Questa [l’astronomia] più che
alcune delle sopradette [scienze] è nobile e alta per nobile subietto, che è de
lo movimento del cielo, e alta e nobile per la sua certezza, la quale è senza
difetto, sì come quella che da perfettissimo e regolarissimo principio viene.”
(Cv, XIII, 18). E la scienza del “nobile subietto” è ritenuta così perfetta
e regolare che Dante utilizza gli astri, sia per stabilire le date di
determinati eventi, sia per definire la propria posizione nel ruolo di
personaggio nel corso del viaggio, sia ancora per fornire indicazioni di
orientamento spaziale, sia talvolta per fare sfoggio di un’erudizione
significativamente fuori dal comune. Ma cominciamo a vedere il poema, proprio dal principio, e a
darne un preciso quadro temporale: ”Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi
ritrovai per una selva oscura / che la diritta via era smarrita.” (If 1, 1-3) Anche se tutto il poema ha il sapore profetico Dante non
intende far pronostici sulla sua avventura terrena. Col «mezzo del cammin di
nostra vita» intende dire a metà del cammino della vita media di un uomo. Non a
caso utilizza «nostra», riferito all’umanità, e non «mia». Non è di sicura determinazione la data di nascita di Dante e
spesso la si desume al contrario proprio da questo passo. È comunque
documentata la data di battesimo: 26 marzo 1266. A quell’epoca, l’alta
mortalità infantile congiunta con la paura per il Limbo, induceva a battezzare
i figli appena nati. Dante ci dice di essere nato sotto il segno dei Gemelli.
Anche se questioni inerenti la riforma del calendario potrebbero indurre in
perplessità, senza entrare in dettagli possiamo prendere l’intervallo
convenzionale del 21 maggio - 20 giugno. Appare già singolare che la famiglia
Alighieri abbia atteso circa 10 mesi per battezzare il proprio figlio (con
molta probabilità c’era l’intento di far coincidere la nascita spirituale del
figlio con l’inizio dell’anno civile che cadeva il 25 marzo, giorno
dell’Annunciazione). Ipotizzare una data antecedente il 1265 appare del tutto
fuori luogo. Inoltre Dante ha sicuramente bene in mente la Bibbia che
quantifica la vita media di un uomo pari a 70 anni. Il passo biblico è il Salmo
89-10, 1.2 e che Dante lo conosca lo si desume dal passo IV/ XXIII, 9 del
Convivio: “Là dove sia lo punto sommo di questo arco [della vita], per quella
disaguaglianza che detta è di sopra, è forte da sapere; ma nelli più, io credo,
tra il trentesimo e 'l quarantesimo anno; e io credo che nelli perfettamente
naturati esso ne sia nel trentacinquesimo anno”. Non deve stupire che l’uomo del Medioevo concepisse il
volgere di una vita in 70 anni quando le statistiche parlano di un trentennio
circa. La motivazione risiede sul fatto che l’altissima mortalità infantile e
le frequenti pandemie abbassavano l’età media. Per chi però superava l’infanzia
ed evitava di incappare in pestilenze poteva in effetti sperare in quattordici
buoni lustri. Anche la prematura scomparsa del poeta (morirà nel 1321, a 56
anni, a seguito della malaria che aveva contratto in un viaggio diplomatico
nella laguna veneta) sfiora l’eventualità di morte per pestilenza. Ma torniamo alla questione centrale del discorso. Poiché
Dante considera l’intero ciclo di una vita pari a 70 anni, allora il mezzo del
cammino significa trentacinque anni, ed essendo nato nel 1265, siamo nell’anno
1300. Certo, si potrebbe argomentare anche che il «mezzo» si debba intendere in
maniera generica. Come nel citato passo del Convivio si legge Dante potrebbe
intendere fra 30 e 40 anni. Con solamente questo rimando la data del viaggio
immaginario si restringe all’intervallo compreso fra il 1295 ed il 1305. Alcuni
critici sostengono infatti che l’anno sia il 1301. Non ci esimeremo dal tenerne
conto. In effetti i passi esclusivamente astronomici si conciliano meglio così,
ma esamineremo questi elementi nel corso della trattazione. Ad avvalorare la tesi dell’anno 1300 c’è un passo all’inizio
nel secondo canto del Purgatorio. Durante l’incontro con Casella, l’amico
rivela “se quei che leva [l’Angelo nocchiero] quando e cui li piace, / più
volte m’ha negato esto passaggio, / ché di giusto voler lo suo si face; /
veramente da tre mesi elli ha tolto / chi ha voluto intar con tutta pace.” (Pg
II, 95-99). La possibilità delle anime di cominciare il cammino di
purificazione concessa senza limitazioni da tre mesi a questa parte si
riferisce certamente al Giubileo (il primo nella storia della Chiesa) indetto
da Bonifacio VIII proprio per l’anno 1300. Per essere più precisi la bolla
Antiquorum habet con la quale il papa promulgava il Giubileo è del 22 febbraio
ed il lucro dell’indulgenza andava dal Natale 1299 fino al Natale 1300. In
realtà l’applicazione dell’indulgenze ai fedeli defunti sarà indetta molto più
tardi, solo da Callisto III nel 1457, ma poiché era già credenza consolidata ai
tempi del poeta che l’indulgenza ecclesiastica potesse essere applicata ai
defunti, anche Dante fa sua questa concezione. Poiché il viaggio si svolge,
come vedremo, a primavera il Giubileo era cominciato proprio da tre mesi circa.
Tutto ciò fa dunque presupporre che l’anno sia proprio quello in cui Dante
compie i 35 anni! Stabilito dunque l’anno, passiamo ad analizzare, se ce n’è
possibilità, il mese, il giorno e l’ora. In base ai riferimenti cronologici sparsi nella Commedia si
apprende che il viaggio comincia a primavera e si svolge nel giro di pochi
giorni. La collocazione primaverile si deduce dai seguenti versi: “temp’era dal
principio del mattino / e ‘l Sol montava ‘n su con quelle stelle / ch’erano con
lui quando l’amor divino / mosse di prima quelle cose belle; / si ch’a bene
sperar m’era cagione di quella fiera a la gaetta pelle / l’ora del tempo e la
dolce stagione” (If 1, 37-43). Il muovere quelle cose belle da parte dell’amor divino è un
chiaro riferimento alla creazione. Anche se il vescovo James Ussher (del XVII
secolo), su basi bibliche, porrà la creazione del mondo al 23 ottobre 4004
a.C., alle 9 del mattino, la tradizione biblica medievale, alla quale Dante si
appella, colloca la creazione in primavera. Come non bastasse poco più avanti
si legge «la dolce stagione». Per dare una connotazione precisa possiamo
stabilire, con un simulatore o con calcoli di astronomia sferica, che
l’equinozio ebbe luogo il 13 marzo alle 11:10 TU, mentre il solstizio il 13
giugno alle 22:09 TU, riducendo significativamente la forbice di incertezza
sulla data. Abbiamo già affrontato il problema della localizzazione della selva
oscura e non possiamo sapere dove Dante la volesse collocare, comunque il TU
(tempo universale) è l’orario del fuso orario di Greenwich usato
convenzionalmente dagli astronomi. Se Dante, che ad inizio Trecento viveva
ancora a Firenze, prende per buono il tempo locale dobbiamo aggiungere circa
tre quarti d’ora. Da alcuni passi successivi si evince che il viaggio non può
essere iniziato all’equinozio di primavera, come sostengono alcuni critici, ma
quasi un mese dopo. Uno in particolare, al XXI canto dell’Inferno dà, in un
solo colpo, l’indicazione del giorno, dell’ora e rafforza la tesi che si tratti
dell’anno 1300. “Ier più oltre cinqu’ore che quest’otta, / mille dugento con
sessanta sei / anni compié che qui la via fu rotta” (If 21, 112- 114). Si
tratta di un passo in cui Malacoda, un diavolo, spiega a Dante che il passaggio
è interdetto poiché il ponte è crollato. Appare strano che Dante nell’Inferno,
cioè in uno dei Novissimi della teologia cristiana, metta un’indicazione
temporale così precisa e così terrena. Ad ogni modo egli sta dicendo che ieri
(«ier»), cinque ore avanti rispetto all’ora («otta») attuale, di 1266 anni fa,
questa via si interruppe («la via fu rotta»), cioè il ponte crollò. Poco più
avanti si scoprirà che Malacoda sta mentendo in merito ai ponti crollati, ma se
prendiamo per buona l’affermazione cronologica, visto che il viaggio è
cominciato da poche ore: sono le 10 circa del mattino successivo a quello in
cui Dante, uscito dalla selva oscura, si stava accingendo, all’alba, a salire
su un colle. Infatti dobbiamo tener conto che il ponte è andato distrutto nel
terremoto seguito alla morte di Cristo, avvenuta il Venerdì Santo del 34° anno
ab incarnazione, verso le 15:00, di pomeriggio. Sul fatto che la passione del
Signore sia avvenuta per Dante nell’anno di grazia trentaquattresimo non ci
sono dubbi. Lo si legge infatti anche nel brano del Convivio immediatamente
successivo a quello citato in precedenza per l’età dell’uomo (cfr. Cv IV,
XXXIII, 10). Regge ancora la tradizione secondo cui Cristo è vissuto trentatré
anni e collocando tradizionalmente la nascita per il “Figlio dell’uomo” al 25
dicembre, quando avvenne la Passione non aveva ancora compiuto gli anni. In
definitiva l’indicazione per l’anno è ancora una volta il 1300. Qualche
perplessità sorge invece sul mese e poi sul giorno. Secondo alcuni critici
Dante ritiene che la morte di Cristo risalga al 25 marzo; quindi, durante il
diverbio con Malacoda, dovremmo essere al 26 marzo 1300. Tuttavia Dante si
riferisce al Venerdì Santo dell’anno in corso, il 1300 che, ricordiamolo, è il
primo anno giubilare. Allora, calcolando la data della Pasqua (10 aprile), il
viaggio ebbe inizio il 7 aprile. Infatti, solo al canto precedente, si dice che
“e già ier notte fu la Luna tonda” (If XX, 127). Calcoli astronomici mostrano
che la Luna fu piena il 6 aprile alle 1:55 TU. Questo permette di concludere
che la lugubre esperienza della selva oscura è databile 7 aprile, mentre i due
poeti cominciano a muovere i passi del viaggio vero e proprio solo dopo il
tramonto del Sole («Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno / toglieva gli animai
che sono in terra / da le fatiche loro; e io sol uno / m’apparecchiava a
sostener la guerra / sì del cammino e sì de la pietate che ritrarrà la mente
che non erra» If II, 1-6), quando secondo il computo medievale era già
cominciato il successivo giorno 8. Le cinque ore avanti, infine, fanno
retrocedere le lancette dalle ore 15:00 della morte di Cristo alle presenti ore
10:00. Per precisione si dovrebbero considerare le ore 15:00 sul meridiano di
Gerusalemme. Fra la Toscana e la città palestinese ci sono circa 24° di
longitudine, quindi una differenza di quasi 100 minuti di fuso orario. Quindi
il dialogo con Malacoda dovrebbe essere avvenuto verso le ore 8:20 delle
località sul meridiano fiorentino. Per quanti vogliono collocare il viaggio nel successivo
1301, la Pasqua cadde il 2 aprile, così facendo il Venerdì Santo scivola al 31
marzo. Se questa è la data il giorno precedente la Luna non era affatto piena!
Se invece prendiamo come riferimento la morte del Messia al 25 marzo, adesso è
già il 26 ed il plenilunio è più calzante, essendo occorso il 25 marzo alle
6:20 TU, così facendo tornerebbe il plenilunio, ma non il Venerdì Santo e gli
anni sarebbero non 1266 più spiccioli, bensì 1267 più spiccioli, a meno di non
pensare che Dante seguisse una tradizione diversa in merito agli anni di Cristo,
il che però sembra essere escluso dal passo del Convivio. L’ipotesi più credibile è che si debba pensare a delle
licenze poetiche, per esigenze simboliche, quei rimandi che non concordano.
Apparentemente si nota infatti una residua discordanza anche tra il giorno del
plenilunio, il 6 aprile, e la data di inizio del viaggio oltremondano, l’8
aprile, che invece non vi sarebbe se ponessimo il viaggio nel 1301. Tuttavia
occorre tener presente che Dante dice: «iernotte fu la Luna tonda», non piena. La Luna, per chi
l’osserva ad occhio nudo, rimane tonda per 3 giorni a cavallo del plenilunio.
Dunque il poeta potrebbe intendere genericamente che «ieri», cioè il 7 aprile,
la Luna appariva tonda (come del resto anche il 5 ed il 6), senza
necessariamente riferirsi al giorno del plenilunio. Ci potrebbe essere qualche spiegazione alternativa a tutto
ciò? Dante, scrivendo la Commedia alcuni anni dopo, avrà dovuto eseguire i
calcoli o avrà dovuto attingere a qualche almanacco astronomico per rivedere le
fasi lunari e gli altri fenomeni transienti. Però, che abbia commesso qualche
errore o che l’almanacco presentasse sviste così grossolane ci sembra di
poterlo escludere quasi a priori. Certo rimane un aspetto vago visto che non ci
sono nemmeno esigenze poetiche speciali: «mille dugento con sessanta sei» o
«mille dugento con sessanta cinque» sarebbero entrambi endecasillabi! Anche all’inizio del Purgatorio c’è un’altra incongruenza
che punterebbe ancora sul 1301, ma questa l’esamineremo più avanti. Determinare, infine, l’ora del viaggio ultraterreno del
poeta, in compagnia di Virgilio, è cosa piuttosto semplice. Infatti nel proemio
dell’Inferno si legge: “guardai in alto e vidi le sue spalle [del colle] /
vestite già de’ raggi del pianeta / che mena dritto altrui per ogne calle” (If
1, 16-18). Il «pianeta che mena dritto» è chiaramente il Sole; tralasciamo la
questione cosmologica sul fatto di definire il Sole come pianeta. Nei versi
seguenti troviamo il poeta impegnato con le tre fiere nel passo già citato:
“Temp’era dal principio del mattino”, (If 1, 37) e infine appare Virgilio a
toglierlo d’impiccio. In definitiva, dalle indicazioni astronomiche fornite nel
testo, si deduce che la notte del 7 aprile 1300, Dante, in un luogo non ben
definito, ma ad una distanza angolare di 30° da Gerusalemme, si trova smarrito
in una selva oscura. All’alba del 7 aprile, mentre si accinge a salire su un
colle, incontra tre fiere e successivamente Virgilio che gli si offre come
guida nei regni dell’Inferno e del Purgatorio. Il viaggio, però, comincia
all’imbrunire di quel giorno, visto che il secondo canto comincia con i versi:
“Lo giorno se n’andava e l’aere bruno / toglieva gli animai che sono in terra /
da le fatiche loro; e io sol uno / m’apparecchiava a sostener la guerra / sì
del cammino e sì della pietate, / che ritrarrà la mente che non erra.” (If,II,
1-6). In definitiva gli elementi astronomici inducono a pensare
questo: Dante incomincia il suo viaggio di quello che noi definiremmo giovedì 7
aprile, ma che per Dante è venerdì 8 aprile 1300 nel tardo pomeriggio-sera,
diciamo, tanto per fissare un orario, fra le 18:00 e le 19:00. In alternativa
il 25 marzo (già 26) 1301. E’ difatti ragionevole supporre che «lo giorno se
n’andava» debba riferirsi ad un’ora del crepuscolo civile o al limite nautico.
E qui scatta il cronometro!
Utilizzando un programma come Google earth possiamo portare
alle estreme conseguenze il nostro gioco: dove poteva essere la selva oscura
nella quale Dante si è perso? Non era nelle intenzioni del poeta dare una
precisa localizzazione, tanto più che si tratta di un’allegoria della vita
peccaminosa. Tuttavia, alla luce delle attuali conoscenze geografiche appare
irragionevole che Dante si trovasse a trascorrere dei giorni in Scozia,
Lapponia o Siberia. Poco probabile anche nella foresta equatoriale africana.
L’unico luogo che potrebbe reggere è il Portogallo. Nel resto della cantica infernale si susseguono numerosi i
riferimenti astronomici, geografici, fisici e sono loro appunto che servirono a
Galileo per congetturare le dimensioni dell’Inferno. Per il nostro ragionamento
conviene invece saltare direttamente agli ultimi versi, grazie ai quali
possiamo dare idea del tempo trascorso da Dante, in compagnia di Virgilio,
nelle viscere della Terra. “Levati sù”, disse ’l maestro, “in piede:/ la via è lunga e
’l cammino è malvagio, / e già il sole a mezza terza riede.”/ […] / e come, in
sì poc’ora / da sera a mane ha fatto il sol tragitto? / […] / Qui è da man,
quando di là è sera. (If, XXXIV, 94-96 / 104-105 / 118). Quando Dante e
Virgilio si scambiano queste battute siamo all’imboccatura della Natural
Burella. All’estremità opposta troveranno il «pertugio tondo» dal quale
torneranno a rivedere le stelle. In fondo al Cocito era sera e Dante si
meraviglia che in un lasso di tempo che gli è sembrato modesto («in sì
poc’ora») sia passato mezzo giorno. Virgilio spiega a Dante quella che oggi
chiameremmo differenza di fuso orario. Fra due luoghi posti agli antipodi ci
sono 12 ore di differenza. L’uscita nel Purgatorio è agli antipodi del luogo
nel quale il poeta è entrato la sera prima; «mezza terza» è una locuzione che
indica la metà della terza ora del giorno (e «riede» significa «ritorna»). Per comprendere questo passo bisogna considerare il modo di
calcolare lo scorrere del tempo nel Basso Medioevo. Allora, come oggi, si
avevano 24 ore, divise fra 12 di notte (dall’Ave Maria della sera concomitante,
alla buona, col tramonto fino all’alba) e 12 ore diurne (dal sorgere del Sole
fino all’Ave Maria della sera successiva). Le due mezze giornate venivano
quindi divise in 12 parti. Così facendo le ore medievali, dette italiche, erano
diseguali. In estate erano lunghe quelle diurne e brevi quelle notturne, in
inverno saranno state brevi quelle diurne e lunghe quelle notturne. Solo in
corrispondenza dell’equinozio saranno state uguali. Il viaggio comincia l’8
aprile e ormai è diventato il 9 aprile. Agli antipodi di Gerusalemme il Sole
sorge alle 16:07 TU e tramonta alle 4:09 TU. Anche se non è chiaro se Dante si
riferisce a Gerusalemme o al punto nel quale sta per uscire (ma non è ancora
arrivato) poiché la differenza è di soli 2 minuti, possiamo considerare in
pratica la durata delle ore pari a 60 minuti (la differenza è di appena 10
secondi ad ora). A metà della terza ora significa che dal tramonto (o dal
sorgere a seconda di quale emisfero si considera, anche se pare più ragionevole
considerare quello del Purgatorio) sono passate due ore e mezzo. Sono dunque le
5:39 TU, che corrispondono alle 8:00 locali, mentre a Gerusalemme sono le
20:00. Se consideriamo l’entrata nell’Inferno alle 18:00 tanto per
fare cifra tonda, la discesa si è compiuta in 26 ore. La risalita comincia alle
8:00 e termina ad un’ora non meglio precisata prima dell’alba, indicativamente
fra le 4:00 e le 5:00. La risalita, nonostante sia in salita e nonostante
l’illuminazione scarsa ed il suolo dissestato (“natural burella / ch’avea mal
suolo e di lume disagio”, If XXXIV, 98- 99) si compie in meno di 21 ore. Il
tempo in meno nella risalita è pienamente giustificabile dal fatto che non ci
sono soste per intrattenersi con i dannati, anzi è Dante stesso a raccontarci
che si incamminano «sanza cura d’aver riposo alcuno» (If XXXIV, 135). Anche
tenendo conto delle dimensioni della Terra come le concepiva il poeta, il
percorso infernale è stato percorso a velocità degne di un bolide di formula 1.
La discesa infatti è stata effettuata ad una velocità media 215 km/h con
numerosissime soste, mentre la risalita a 265 km/h! Sta di fatto che la mattina di domenica 10 aprile1300,
giorno di Pasqua, i due poeti si trovano sulla riva del mare alle pendici della
montagna del Purgatorio. In alternativa tutto ciò avviene il 27 marzo 1301 o il
2 aprile 1301. Tornando a cielo aperto Dante si potrebbe sbizzarrire in
indicazioni astronomiche. Poiché le regole del Purgatorio prevedono che solo
durante il giorno si possa procedere nell’ascesa mentre di notte occorre
fermarsi, i rimandi del poeta sono per lo più legati al Sole, mentre le stelle,
dopo il primo canto, finiscono in secondo piano. Già il 19° verso della cantica
comunque pone una questione astronomica: “Lo bel pianeto che d’amar conforta
[Venere] / faceva tutto rider l’oriente / velando i Pesci ch’erano in sua
scorta” (Pg. I, 19-21). Tutti sappiamo quanto Venere sia luminosa ma di qui a
sostenere che riesca a velare la costellazione ce ne corre! Si tratta di una
iperbole poetica per indicare solamente che il pianeta si trova nei Pesci. Con
un simulatore o con calcoli astronomici si può constatare che nell’aprile 1300
nei Pesci troviamo Marte, mentre Venere, a 36° di longitudine eclittica, è nel
Toro e invisibile prima dell’alba. L’imprecisione astronomica mostra che Dante
immagina concomitanze ideali, per esigenze allegoriche, conferendo al tempo
stesso un’impressione di resoconto vero e proprio di un viaggio scandito nel
tempo e nello spazio, con qualche licenza poetica ogni tanto, quando la
simbologia lo richiede. I sostenitori del 1301 come anno del viaggio possono
mostrare che nella primavera di quell’anno, effettivamente Venere si trovava
proprio nei Pesci e quindi visibile prima del mattino. La sua longitudine era
di 344°, col Sole a 27°. Può al più questo passo addurre ulteriori dubbi
sull’attendibilità delle effemeridi dantesche, fatte in prima persona o riprese
da altri? Riprendendo ancora una volta in esame le parole dell’amico
Casella, incontrato all’inizio del Purgatorio, qualche sospetto ulteriore viene
senz’altro. Le sue parole farebbero coincidere meglio la data del 25 marzo.
Infatti se i tre mesi di cui parla si riferiscono all’inizio del Giubileo siamo
a tre mesi esatti, se invece ci riferiamo alla bolla, del 22 febbraio, dovremmo
essere al 22 maggio del 1299, il che è assolutamente fuori luogo. Si
tratterebbe pertanto di una migliore concordanza sul giorno e mese e anno, ma
non sull’evento pasquale. Dante dopo avere visto i Pesci a Est volge lo sguardo a
destra (cioè si rivolge a sud) e vede quattro stelle. Sicuramente si tratta di
un’allegoria delle virtù cardinali (prudenza, fortezza, giustizia, temperanza).
Inattendibile che si possa trattare della Croce del Sud, anche se Dante ne
poteva aver avuto notizia da qualche viaggiatore. Oltre tutto le stelle
costituiscono una graziosa costellazione per come sono state raggruppate, ma le
componenti sono solo relativamente luminose: Acrux, la più brillante, è la
tredicesima stella per luminosità. E’ tuttavia un’immagine suggestiva, tanto
più che dice «non viste mai fuor ch’a la prima gente» (Pg I, 27). Per
effetto della precessione degli equinozi la Croce del Sud, infatti, in
antichità era visibile anche dalla Toscana. Un ipotetico abitante che si fosse
alzato di buon mattino di dicembre nel 2000 a.C. avrebbe potuto scorgere la
Croce del Sud appena sopra l’orizzonte, mentre per Gerusalemme occorreva
scorrere di meno indietro nel tempo! Era sufficiente l’XI secolo d.C. Ma riprendiamo il viaggio. L’inizio del secondo canto è
ancora una volta prettamente astronomico. In questo caso il Sole, l’aurora e la
notte personificate servono per dare indicazioni orarie: “Già era ‘l sole a
l’orizzonte giunto / lo cui meridian cerchio coverchia / Ierusalem col suo più
alto punto; / e la Notte, che opposita a lui cerchia, / uscìa di Gange fuor con
le Bilance, / che le caggion di mano quando soverchia, / sì che le bianche e le
vermiglie guance, / là dov’i’ era, de la bella Aurora, / per troppa etade
divenivan rance.” (Pg II, 1-9). Tutta la locuzione è un po’ intricata ma
cerchiamo di venirne a capo. Sono le ore 6:00 del mattino del 10 aprile.
Ricordiamo che il Sole ha raggiunto una declinazione positiva, pertanto alle
6:00, anche se il panorama è dichiaratamente luminoso, per Dante che è
nell’emisfero australe, il Sole non è ancora sorto da sotto l’orizzonte;
approssimativamente è a -2° di altezza ed è giunto all’orizzonte di quel meridiano
che congiunge Gerusalemme col suo punto più alto, cioè lo zenit, mentre la
Notte (personificata) che si muove dello stesso moto, ma diametralmente opposta
al Sole, usciva dal Gange nel segno della Bilancia, che però le cascano di
mano. Siccome il Gange era ritenuto 90° a est di Gerusalemme, quando il Sole è
all’orizzonte di Gerusalemme e del Purgatorio la Notte sorge all’orizzonte est,
esce cioè da Gange. Siamo appena oltre l’equinozio, quindi il Sole sta uscendo
dall’Ariete per entrare in Toro, così come la Notte è congiunta con la Bilancia
ma sta per lasciare il segno ed entrare in Scorpione. La notte lascia il segno
della Bilancia così come una persona che le fa cadere dalle proprie mani. È
questo il senso delle «bilance che le caggion di mano». L’immagine poetica dell’Aurora personificata appare molto
più discutibile. L’orizzonte del primo mattino, prima rosso e poi bianco, non
diventa arancione, caso mai è il contrario: prima è rosso, poi arancione ed
infine bianco. In ogni caso è mattina presto. Sono passate 48 ore dalla
partenza, ma per effetto del cambio di longitudine Dante e Virgilio hanno
guadagnato 12 ore. Passiamo al quarto canto dove troviamo un ulteriore
controverso rimando astronomico: “Li occhi prima drizzai a bassi liti / poscia
li alzai al Sole, e ammirava / che da sinistra n’eravam feriti” (Pg IV, 55-57).
Dante nel primo canto racconta di aver visto Venere e i Pesci ed Est e poi
quattro stelle a Sud. Per questo motivo si deve immaginare che l’uscita dalla
Natural Burella alle falde della montagna del Purgatorio debba aver avuto luogo
a Est, altrimenti la montagna stessa ne avrebbe impedito la vista. Oltre tutto,
essendo Est il punto cardinale del sorgere appare anche allegoricamente logico
pensare all’ascesa, alla purificazione, cominciando proprio da oriente. Così
facendo però il passo citato appare controverso. L’ascesa della montagna verso
il Paradiso Terrestre, posto sulla sommità, viene effettuata girandole intorno
in senso orario o antiorario? I commentatori concordano su un percorso compiuto
in senso antiorario. Siamo in tarda mattinata. Il Sole a sinistra («a sinistra
n’eravam feriti») indica che i due poeti stanno procedendo verso Est-Sud-Est.
All’alba di quel medesimo giorno Dante ha osservato a Sud quattro stelle. Ne
consegue che nel frattempo ha effettuato una rotazione compresa fra 210° e 300°
circa. Siccome sta camminando da meno di cinque ore e ha effettuato numerose
soste per intrattenersi con le anime si dovrebbe supporre una montagna troppo
piccola per accogliere tutte le anime in purificazione. Velocità supersoniche,
mentre nell’Inferno si possono ancora sostenere, appaiono fuori da ogni logica
nel Purgatorio, che nell’immaginazione di Dante, altro non è che la terra degli
antipodi. In teoria si potrebbe anche supporre che la montagna sia
tanto alta sì, ma dal profilo molto affusolato, per cui anche ad essere alla
base sul versante occidentale non sia impedita la vista di buona parte del
cielo orientale. In tal caso avremmo una rotazione compresa fra 30° e 120° che
è decisamente più ragionevole. Ma tale argomentazione a ben vedere non regge,
per le motivazioni allegoriche dette sopra. Sembra molto più ragionevole
immaginare una deviazione locale del cammino, come si conviene ad un sentiero
tortuoso alpestre. Oppure ad un tragitto effettuato in senso orario. Che Dante
rimarchi una sensazione temporanea dovuta ad una deviazione momentanea dalla
traiettoria sembra un po’ strano. Forse, ancora una volta, c’è solamente
l’intento di dare realismo al viaggio che sta intraprendendo. Siamo intanto al mattino del 10 aprile (o 27 marzo, 2
aprile), con Dante e Virgilio in marcia da circa 50 ore. Al XV canto un nuovo rimando: “Vespero là, e qui mezza notte
era / e i raggi ne ferien per mezzo ‘l naso / perché per noi girato era sì ‘l
monte / che già dritti andavamo inver l’occaso” (Pg XV, 6-9). I due poeti
stanno procedendo verso Ovest. Rispetto al passo precedente hanno guadagnato
quasi un intero giro poiché il viaggio in salita, per quanto tortuoso, è fatto
a spirale. Si può notare la “finezza” del verso che inverte il più
ovvio dei sistemi di riferimento dicendo “per noi girato era sì ’l monte”
anziché «avevamo girato il monte» o locuzioni simili. Siamo arrivati al lunedì di Pasqua 11 aprile (28 marzo, 3
aprile), fra le 15:00 e le 18:00. Si farà notte e poi il giorno seguente Dante e Virgilio si
rialzeranno quando ormai è già mattina: “Sù mi levai, e tutti eran già pieni /
de l’alto dì i giron del sacro monte, / e andavam col sol novo a le reni” (Pg
XIX, 37-39). Rispetto a quattro canti prima non c’è un cambiamento sostanziale
di posizione, a meno di non supporre ulteriori deviazioni locali, perché avendo
il Sole del mattino alle spalle («a le reni») stanno ancora procedendo verso
Ovest, anche se forse un lieve incremento si può intuire dal fatto che a
mattina inoltrata il Sole, nell’emisfero australe, è già più spostato verso
Nord. La giornata si conclude al canto ventisettesimo con i versi: “Dritta
salia la via per entro ‘l sasso / verso tal parte ch’io toglieva i raggi /
dinanzi a me del sol ch’era già basso. / E di pochi scaglion levammo i saggi /
che ’l sol corcar, per l’ombra che si spense, / sentimmo dietro e io e li miei
saggi.” (Pg XVII, 64-69). Una perifrasi dei precedenti versi potrebbe suonare
pressappoco: “La strada saliva diritta dentro la pietra [era scavata nella
roccia] nella direzione verso cui facevo ombra del Sole che era già basso
dietro a me. Avevamo fatto pochi scalini che ci accorgemmo che il Sole si era
coricato dietro di me e degli altri poeti [in mia compagnia] per via dell’ombra
che si era spenta”. Siamo al tramonto dell’11 aprile (oppure 28 marzo o 3
aprile 1301), terzo giorno di viaggio. Due giorni dopo, a mezzogiorno, siamo ormai al 13 aprile di
mercoledì dopo Pasqua (oppure 30 marzo 1301, ma che ancora non è Pasqua, o 5
aprile), Dante raggiunge il Paradiso Terrestre e di lì a poco sarà «puro e
disposto a salire alle stelle». Ce lo dice lui stesso, ancora una volta con una
perifrasi astronomica: “E più corusco e con più lenti passi, / teneva il Sole
il cerchio di merigge” (Pg XXXIII 103-104). «Corusco» è un vocabolo che
significa luminoso e i lenti passi sono un rimando ad un moto angolare
apparentemente più lento effettuato in corrispondenza del cerchio meridiano.
Tutto ciò, inequivocabilmente, indica che siamo a mezzogiorno. Di qui a poco
Dante, privo dei peccati che tengono il corpo mortale piantato a terra,
comincia ad ascendere al cielo. Tanto per continuare il gioco possiamo dire che
Dante ascende ma a quanto pare non è toccato dall’aria. Egli infatti percepisce
l’ascesa solo perché Beatrice, incontrata nel Paradiso Terrestre e che ha preso
il ruolo di Virgilio come guida del poeta, a mano a mano che sale nei cieli
diventa sempre più luminosa. Si può concludere allora che l’ascesa deve
avvenire praticamente di moto rettilineo. Ovviamente questa è un’altra
obiezione che anche alla luce delle conoscenze cosmologiche del tempo non
potrebbe reggere, ma non vale la pena di perdersi in simili sottigliezze visto
il nostro primario intendimento volto a dare indicazioni sul passaggio del
tempo durante l’intero tragitto. Entrati nella terza cantica i rimandi astronomici, sempre
molto frequenti, diventano meno precisi per darci indicazioni temporali. Dante
ormai è immerso fra i pianeti e le stelle e le indicazioni orarie vengono ad
essere più vaghe. Tutta l’iconografia è concorde su una rappresentazione nella
quale Dio è posto perpendicolarmente sopra il Paradiso Terrestre e d’altra
parte, abbiamo detto, Dante dovrebbe muoversi di moto rettilineo e forse anche
uniforme. Questa concezione però non può reggere perché in alcuni casi, come
vedremo tra breve, i richiami all’ecumene sono lampanti. Dal momento che nella
concezione aristotelica la Terra è ferma, oltre che al centro, deve essere
Dante a giragli intorno per arrivare dalle parti opposte, grosso modo, a dove
si trovava quando ha cominciato ad ascendere. La salita è immediata, pertanto l’ascesa avviene il 13
aprile a mezzogiorno: sono passati 5 giorni, oppure 126 ore circa da quando è
partito. In questo stesso istante, poiché sopra il Paradiso Terrestre è
mezzogiorno, sopra Gerusalemme, che è agli antipodi, è mezzanotte. Questo fatto
sarà abbastanza importante per la cronologia successiva. L’unico punto di tutto il Paradiso in cui l’ora è abbastanza
chiara, si ha in: “Da l’ora ch’io avea guardato prima, i’ vidi mosso me per
tutto l’arco / che fa dal mezzo al fine il primo clima; / sì ch’io vedea di là
da Gade il varco / folle d’Ulisse, e di qua presso il lito / nel qual si fece
Europa dolce carco. / E più mi fora discoverto il sito / di questa aiuola; ma
’l sol procedea / sotto i mie’ piedi un segno e più partito.” (Pd XXVII 79,
87). Dante ha abbandonato il moto rettilineo ed ha effettuato in cielo una
rotazione di 90°. Ora può vedere il primo clima da metà fino alla fine. Sta
ascendendo verso il Primo Mobile quindi il Sole è sotto i suoi piedi. Questi versi mostrano però una difficoltà astronomica. Il
Sole è nell’Ariete e da quella posizione, vista l’ora, non può illuminare la
Fenicia, terra sui cui lidi fu rapita Europa. Per risolvere la questione si prospettano due possibilità: o
Dante con la locuzione “presso il lito” intende la Fenicia in maniera assai
approssimativa; o Dante, non ricordando bene il mito citato da Ovidio, ha
confuso il luogo di partenza con quello di arrivo (Creta) che è invece ancora
in luce. In ogni caso fra Creta e la Fenicia si ha il terminatore. Poiché,
approssimativamente, Creta ha una longitudine di 25° Est da Greenwich, mentre
la Fenicia 36°, si deve dedurre che il Sole sta culminando sopra un meridiano
di longitudine compresa fra 54° e 65° Ovest. Siamo dunque fra le 15:36 TU e le
16:20 TU. A Gerusalemme, che ha una longitudine praticamente coincidente con la
Fenicia, siamo fra le 18:00 (inoltrate) e le 18:45 circa. Ma visto che l’ascesa
dal Paradiso Terrestre è cominciata a mezzogiorno, dove a Gerusalemme era
mezzanotte, sono passate altre 18 ore abbondanti. Dall’inizio del viaggio sono
passate 144 ore, si sono conclusi 6 giorni e spiccioli e stiamo per entrare nel
settimo giorno. Anzi, a dire il vero, quando Dante ripassa dall’emisfero
australe verso quello boreale, sappiamo che cambia anche longitudine essendo
dopo 27 canti sopra Cadice. Se dovesse essere passato sopra l’oceano Pacifico,
dovrebbe cambiare anche giorno. Le 12 ore che ha guadagnato passando per
l’Inferno le riperderebbe ora e sarebbe già in pieno settimo giorno. Terminato il viaggio nella porzione fisica di cielo,
troverà, dopo il Primo Mobile, la Candida Rosa ed arriverà finalmente alla
visione dell’«Amor che move il Sole e l’altre stelle». Quanto duri questo lasso
di tempo è impossibile desumerlo dall’opera. Volutamente Dante lascia ogni
riferimento cronologico essendo entrato nella beatitudine eterna e senza tempo.
Si può ipotizzare che il tutto si risolva in pochi minuti, giusto il tempo di
far recitare a S. Bernardo la sua preghiera e poco più, facendo sì che il
viaggio duri 6 giorni (abbondanti), come i giorni occorsi al Signore per
portare a compimento la Creazione che, in qualche modo, Dante compendia.
Oppure, più ragionevolmente, occorrerà una manciata di ore così da arrivare a 7
giorni ed avere una settimana piena. Oppure ancora, ma ci sembra la meno probabile,
più di 24 ore così da intaccare anche l’ottavo giorno che veniva considerato,
proprio come giorno in più rispetto ai giorni della settimana, come il giorno
della pienezza dei tempi; da questo prendevano ispirazione anche gli architetti
che spesso utilizzavano una pianta ottagonale per le chiese. Anche la
costruenda cattedrale di S. Maria del Fiore, a parte le navate, ha una pianta
ottagonale sopra l’altare, sul quale poi Brunelleschi isserà la sua magnifica
cupola. Dante non poteva probabilmente nemmeno immaginare come sarebbe stata
coperta la basilica ma l’impianto ottagonale è molto probabile che l’abbia
visto, prima di essere esiliato. Che dire dunque, giunti anche noi alla fine di questo
viaggio. In base al solo testo non siamo in grado di stabilire altro che un
limite inferiore alla durata del “tour” dantesco. Tale limite è pari a 144 ore,
pari a 6 giorni, o se si preferisce, tenendo conto del cambio di fuso, a 6
giorni e mezzo dalla partenza. Il limite superiore potrebbe essere fissato in 7
oppure 8 giorni come abbiamo detto sopra. L’ipotesi più ragionevole è che tutto
cominci l’8 aprile 1300 verso le 18:00 per terminare il 14, il 15 o al massimo
il 16 aprile. Abbiamo discusso sopra di possibili alternative. Comunque se
il viaggio fosse cominciato il 25 marzo 1301 dovrebbe essersi concluso verso il
31 marzo e sostenendo la partenza al 31 marzo la conclusione è sempre verso il
6, 7 aprile. Sarà occorso dell’altro tempo per ritornare con i piedi per
terra? Certamente sì, ma questa è un’altra storia al di fuori della scansione
temporale della Divina Commedia. Nel lasso di tempo del poema l’autore ha modo
di vedere tutto l’Universo allora conosciuto, superando tutti in fantasia,
visto che riesce nell’impresa di raggiungere l’esatto centro della Terra,
impresa che anche Jules Verne negherà al professor Lidenbrock e compagni nel
“Viaggio al centro della Terra”, non si limiterà a circumnavigare la Luna come
i tre protagonisti, Ardan, Barbicane e Nicholl, di “Intorno alla Luna”, ma al
contrario supererà tutti i cieli e squarcerà la sfera delle stelle fisse come
il viandante protagonista de “L’atmosphere: météorologie populaire” di Camille
Flammarion. Ma mentre il viandante è “fotografato” in quell’istante e nessuno
ci dice se riesce ad andare avanti, Dante lo sopravanza “per giunger là dove
nessuno è mai giunto prima” …meglio dell’astronave di Star Treck. Il tempo trascorso è comunque sufficiente a fare nostre le
perplessità di Venturino Camaiti che in occasione del VI centenario dalla morte
di Dante compose delle poesiole in vernacolo fiorentino che facevano la parodia
al sommo poema: “Mi permette? Dica. Se dormiva, parlava, camminava, insomma a
pari nostro gli era vivo, alla latrina o a tavola un ci andava? Che Dante
unn’era morto è positivo, ma se facea di corpo e se mangiava, ne domandi a i’
dDel Lungo: io non ci arrivo”. Lorenzo Brandi
In occasione del Dantedì: 25 marzo 2021 UN PENSIERO DI RINGRAZIAMENTO PER IL TESTAMENTO SPIRTUALE DEL M° SALVATORE MERGÉ
Ultimo aggiornamento Sabato 13 Marzo 2021 08:45 | | Stampa | | E-mail
J.M. Kremmerz al secolo Ciro Formisano: un altro grande
saggio (raro) della nostra meravigliosa Italia dileggiato dai suoi stessi
ignoranti compatrioti (numerosissimi). Dileggiato lui e diffamato il suo
pensiero. Certo, sì, ma come sempre solo da coloro che non ne hanno mai letto
direttamente una sola riga. Perché se hai letto i suoi scritti non puoi non riconoscere
il suo stile unico. Salvatore Mergé conosceva molto bene sia lui che il suo
stile di scrittura. Ecco perché vale la pena ascoltare il suo testamento
spirituale. Siamo il paese che ha visto Dante esiliato, Leonardo allontanato
e Giordano Bruno bruciato sul rogo. C’è da sorprendersi che si voglia gettare
discredito sul M° Kremmerz e sulle sue opere o, meglio ancora, che se ne voglia
fare l’uso che più fa comodo ai molti presunti discepoli? Un elemento dovrebbe accomunare tutti i ricercatori dello
Spirito unico: il Buon Senso (e lo scrivo in maiuscolo!). Certe pratiche
millantate da inesperti, improvvisati, furbetti di ogni italica sorta e che si
autoproclamano ermetisti dovrebbero dare un solo effetto: il disgusto. Per la
pratica in sé e per quanti le volessero attuare. Ma tant’è. Pensiamo alla bellezza di questa buona novella da
accogliere con immensa gratitudine nei confronti del M° Salvatore Mergé che con
la sua infinita delicatezza ha voluto che si attendessero tempi più maturi per rendere
nota la verità dei fatti. Senza dover essere dei Lorenzo Valla, appare abbastanza
evidente, per chi conosca un po’ lo stile del M° Kremmerz, che quelle pagine
sono scritte da un altro pugno. Né l’animo né la vita vissuta né tantomeno gli
scritti di Ciro Formisano potevano corrompersi con tanta pochezza
intellettuale. Ma lasciamo che “i morti seppelliscano i loro morti” e che
“chi ha orecchie per intendere, intenda”. Grazie M° Salvatore per aver
condiviso con noi l’esperienza e la testimonianza dell’incontro con chi ci ha
riaperto il cuore e lo spirito alla conoscenza ultima della luce myriamica. Morgal
– Un fratello di Hermes |
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